La legge n. 110 del 14 luglio 2017 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 166 del 18 luglio 2017) ha introdotto nel nostro ordinamento il delitto di tortura, in notevole ritardo rispetto alla Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984, ratificata dall’Italia nel 1988. Non vi è dubbio che a sollecitare i lavori parlamentari per l’introduzione della nuova fattispecie criminosa siano state due sentenze della Corte europea (del 7 aprile 2015, Cestaro v. Italia e del 22 giugno 2017, Bartesagni, Gallo et al. v. Italia), con cui i giudici di Strasburgo hanno censurato il nostro Paese per la mancanza di una disposizione ad hoc che sanzionasse adeguatamente ogni atto di tortura.
Così, la recente legge ha introdotto nel nostro codice penale, nel Titolo XII (Delitti contro la persona), Sezione III (Delitti contro la libertà morale), i reati di tortura (art. 613-bis c.p.) e di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (art. 613-ter c.p.).
Il delitto di tortura
Il nuovo art. 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni “chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa”, sempre che il fatto sia commesso “mediante più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità delle persona” (comma 1).
Ai commi successivi sono poi previste alcune fattispecie aggravate del reato in questione:
- se i fatti di cui al comma 1 sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da 5 a 12 anni (comma 2); tuttavia, tale aggravamento non si applica in caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti (comma 3);
- se dai fatti deriva una lesione personale le pene di cui ai commi 1 e 2 sono aumentate sino a un terzo; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo; se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà (comma 4);
- se dai fatti di cui al comma 1 deriva la morte quale conseguenza non voluta la pena è della reclusione di 30 anni; se il colpevole cagiona volontariamente la morte la pena è dell’ergastolo (comma 5).
Il delitto di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura
Il nuovo art. 613-ter c.p. punisce, invece, con la reclusione da 6 mesi a 3 anni “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso”.
Altre modifiche introdotte dalla legge 110/2017
La legge 110/2017 ha altresì introdotto un nuovo comma 2-bis all’art. 191 c.p.p. in tema di prove illegittimamente acquisite, stabilendo la inutilizzabilità delle dichiarazioni o informazioni ottenute mediante il delitto di tortura, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale.
Ha poi aggiunto un nuovo comma 1-bis all’art. 19 del Testo Unico delle disposizioni in tema di immigrazione (d.lgs. 286/1998), sancendo il divieto di respingimento, espulsione o estradizione di una persona verso uno Stato, qualora vi siano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura; a tal fine si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani.
Infine, la recente legge ha escluso il riconoscimento di ogni forma di immunità per gli stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati per il delitto di tortura in un altro Stato o da un tribunale internazionale; ed ha previsto l’obbligo di estradizione dello straniero verso lo Stato richiedente nel quale è incorso il procedimento penale o nel quale è stata pronunciata la condanna per il reato di tortura o, in caso di procedimento dinanzi ad un tribunale internazionale, verso il tribunale stesso o verso lo Stato individuato in base allo statuto del medesimo tribunale.
Prime riflessioni sulla legge che ha introdotto il delitto di tortura
Il lungo iter legislativo della legge 110/2017 è stato per anni caratterizzato da accese polemiche tra le forze politiche e tra l’opinione pubblica, incalzate anche da alcuni gravi episodi di cronaca (come gli avvenimenti alla scuola Diaz e alla caserma della Polizia di Bolzaneto, durante il G8 di Genova). Il testo licenziato dal Parlamento presenta rilevanti differenze rispetto all’iniziale proposta di legge, e non sono mancate le insoddisfazioni e le critiche da parte dello stesso Presidente della Commissione per i diritti umani del Consiglio d’Europa, che ha lamentato una formulazione del reato di tortura divergente rispetto a quella contenuta nella Convenzione ONU, nonché da parte di associazioni che si occupano di tortura (come Amnesty International ed Antigone), per le quali le nuove disposizioni rischiano di non essere efficaci per la prevenzione ed il contrasto di gravi condotte.
Se in una prima formulazione della legge la tortura era un reato proprio, riferendosi al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio, l’art. 613-bis c.p. entrato in vigore si riferisce a “chiunque” ed è quindi un reato comune applicabile a qualsiasi soggetto. L’ipotesi che la tortura sia commessa da un soggetto qualificato, la c.d. tortura di Stato, è stata prevista al comma 2 del medesimo articolo, come – almeno così appare prima facie – una circostanza aggravante. In realtà, la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984 mira espressamente a punire i casi di abuso di potere in situazioni iniziate magari nella legalità ma poi divenute gravi ed illegali, e non ogni condotta violenta posta in essere tra privati cittadini.
Ancora diversamente rispetto alla proposta iniziale, perché si verifichi il delitto di tortura l’art. 613-bis c.p. richiede che il fatto sia commesso con “violenze o minacce gravi”, ovvero che l’agente agisca con crudeltà, sempre che sia stato posto in essere “mediante più condotte” o se possa definirsi quale trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. A fronte del testo della Convenzione ONU, ove non si richiedono più condotte per la configurazione del reato in esame, il plurale di “violenze e minacce gravi”, nonché il riferimento a “più condotte”, destano preoccupazioni a che singoli atti di brutale violenza, commessi in un unico contesto spazio-temporale, possano non rientrare nella fattispecie criminosa.
Vero è, tuttavia, che i problemi legati alla necessità di una reiterazione delle condotte possono essere superati dall’avere agito con crudeltà, purché la condotta abbia comportato un trattamento inumano e degradante, ove – e la dottrina lo ha già evidenziato in maniera critica – i due aggettivi sono cumulativi e non alternativi come per l’art. 3 della Convenzione EDU (Divieto della tortura), che peraltro distingue i trattamenti inumani o degradanti dalla tortura (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”) .
Dal punto di vista dell’evento del reato, dubbi presenta anche la necessità che la tortura abbia cagionato, se non “acute sofferenze fisiche”, “un verificabile trauma psichico”: la specificazione che il trauma debba essere “verificabile” sembra richiedere un obiettivo riscontro nosografico del trauma subìto a seguito della violenza morale, così rischiando di lasciare impunite quelle condotte il cui trauma psichico o è di difficile accertamento per il notevole lasso di tempo trascorso, o riguarda disturbi solo transitori o semplici stati di ansia.
Anche l’elemento soggettivo del nuovo art. 613-bis c.p. presenta distonie, non solo con la iniziale formulazione dell’ipotesi criminosa, ma anche e soprattutto con la definizione di tortura contenuta all’art. 1 della Convenzione delle Nazioni Unite del 1984: “il termine ‘tortura’ indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate”. Diversamente da tale definizione di tortura, il nostro Legislatore ha scelto di punire il delitto in questione a titolo di dolo generico, e non a titolo di dolo specifico, dimenticando così, ed ancora una volta, la finalità della legge stessa, ossia i casi di grave abuso di potere.
Ma i rilievi più critici si sollevano per la c.d. tortura di Stato, delineata al comma 2 dell’art. 613-bis c.p. Poco chiaro è se tale disposizione debba considerarsi quale circostanza aggravante o quale fattispecie autonoma di reato. L’espresso rinvio al comma 1 per la descrizione dei fatti lascerebbe propendere per considerare la tortura commessa da soggetti qualificati come una circostanza aggravante speciale (con la pena della reclusione da 5 a 12 anni), con il rischio però di porre nel nulla la maggiore gravità della tortura posta in essere da un rappresentante dello Stato, potendo sempre operare la disciplina del bilanciamento tra circostanze eterogenee ex art. 69 c.p. Sembra invece deporre per considerare il comma 2 dell’art. 613-bis c.p. quale fattispecie autonoma di reato la formulazione dell’aggravante di cui al comma 4 del medesimo articolo, che fa espressamente riferimento “alle pene di cui ai commi precedenti”: se il comma 2 fosse una circostanza aggravante, con il comma 4 saremmo in presenza di un’aggravante dell’aggravante, istituto di cui non vi è presenza nel nostro ordinamento.
In conclusione, non vi è chi non veda come la formulazione del nuovo delitto di tortura appaia confusa ed indeterminata, destando numerose perplessità ed insoddisfazioni. Ecco allora che l’ingrato compito di definire e delineare il campo applicativo della nuova legge spetta ora alla giurisprudenza, dalla quale si attendono le prime pronunce sugli artt. 613-bis e 613-ter c.p.